In occasione del mese del Pride, abbiamo fatto due chiacchiere con Alec, attivista per il diritti delle persone trans e vicepresidente di ACET (Associazione per la cultura e l'etica transgenere) per affrontare il tema della salute delle persone LGBT+

Perché bisogna parlare del diritto alla salute delle persone LGBTQIA+?

Nel nostro Paese ciascun individuo ha diritto alla salute, intesa non più come assenza di malattie, ma come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale.

Ne va da sé che connesso alla tutela della salute ci sia quindi il miglioramento della qualità della vita; ne è una conseguenza diretta.

Ad oggi però ci sono degli elementi ad ostacolarla. La discriminazione può essere uno di questi elementi. Bisogna quindi parlarne per evitare che i nostri bisogni vengano meno, a causa di ignoranza e stereotipi, volti a marginalizzarci.

Quali sono le principali sfide che le persone LGBTQIA+ affrontano nell'accesso ai servizi sanitari?

Le sfide sono diverse, ma hanno tutte la stessa matrice: lo stigma.

Molti operatori sanitari non sono adeguatamente formati, e né va da sè che non solo questo sia un ostacolo nell'affidamento ai professionisti (i quali non sono in grado di rispondere ai nostri dubbi e le domande più intime), ma anche all'accesso di determinati trattamenti, come può essere nel mio caso l'accesso agli screening ginecologici annuali. Inoltre, anche la privacy e il rispetto dell'identità rappresentano un grande problema, specie per le persone transgenere, che sono le più visibili.

Questo genera dati e ricerche insufficienti, che alimentano le distanze e ci riportano alla matrice di tutto: l'ignoranza.

Tu sei una persona transgender: puoi dirci di più sugli ostacoli che hai riscontrato durante il tuo percorso di affermazione di genere?

Le persone transgenere a oggi hanno più di un problema nell'accesso al diritto alla salute. In Italia abbiamo una legge obsoleta e poco chiara, che ne regola il nostro percorso ma ha la necessità di essere rivista subito, in quanto permette ai tribunali di interpretarla come meglio credono facendoci seguire percorsi che non sono previsti e allungano così il nostro percorso di affermazione di genere.

Questo non solo aumenta ogni anno il tasso di suicidi all'interno della comunità, ma mi ha portato ad ottenere i miei documenti in tre anni dall'inizio del mio percorso, un ostacolo che mi ha obbligato a dover fare coming-out anche cinque volte al giorno, con il rischio di essere aggredito fisicamente e verbalmente, da chiunque vedesse i miei documenti al femminile. Ed è successo!

Quando a settembre dell'anno scorso mi sono stati finalmente rettificati i documenti ho pensato che il calvario fosse finito, ma mi sbagliavo: accedere ai più banali screening ginecologici mi è impossibile.

Mi viene mandato il richiamo per la prostata, ma io non ce l'ho. Ho un utero. Questo ha una grave conseguenza sulla comunità: non poter accedere a questi servizi essenziali aumenta l'incidenza di tumori. E noi sappiamo che solo al Sacco di Milano, attraverso una ricerca della mia associazione, ACET, il 4% dei pazienti nel reparto oncologico è composto da persone transgender.

Inoltre, considerare una gravidanza o addirittura un aborto, è fantascientifico in questo Paese. Sembra quasi che dobbiamo sterilizzarci e basta, rinunciando ai nostri diritti più basilari: ma io voglio poter diventare genitore anche secondo le mie possibilità biologiche, oppure non diventarlo affatto ricorrendo ai mezzi messi a disposizione per chi ha un utero come me.

Come possiamo educare il pubblico e i professionisti sulla salute delle persone LGBTQIA+ per combattere i pregiudizi e favorirne l'accettazione?

Per educare il pubblico ed i professionisti c'è anche bisogno che questi si rivolgano a noi e ascoltino le nostre istanze ed esigenze, attraverso spazi come questo. Non a chi parla per noi e di noi.

Parlo di ascolto perché mi è capitato spesso di avere confronti con specialisti che in quanto tali non volevano ammettere di aver fatto disinformazione sui nostri corpi, patologizzandoli. Il ritorno è però che ci si rileghi a tutta quella serie di pregiudizi e stereotipi, quale quello del corpo sbagliato.

Ma il mio corpo va bene così. Non ci devi convivere tu, ma io. E quello che ne faccio restano affari miei e della persona con cui, in maniera consensuale, andrò a letto.Inoltre segnalo che quest'anno ho potuto presentare sul palco del Milano Pride il documento politico della mia comunità. Leggerlo può sicuramente aiutare ad approfondire il tema, oltre a seguire la no

stra associazione ed il nostro operato.

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