Ciao sono Daniela ho 32 anni e vivo a Bergamo. Quando ho avuto i primi sintomi in realtà non ero non ero in Italia ma lavoravo ad Haiti come cooperante nel settore di emergenza. I primi sintomi sono stati il bruciore vulvare, il dolore alla penetrazione, quello a stare seduta o in determinate posizioni, ma visto il tipo di lavoro che facevo, avevo associato il dolore alle condizioni di vita, ai ritmi, a determinati spostamenti sia in elicottero che con i pick-up dell'organizzazione in zone particolarmente impervie.

Vista la complessità dei luoghi in cui lavorato, avevo dovuto attendere il mio rientro in Italia per le prime visite. Le facevo dalla ginecologa che mi ha seguito da sempre, quella della mia famiglia, poiché abbiamo una storia importante ginecologica oncologica quindi era una persona di cui mi fidavo molto. Tuttavia, nonostante le parlassi dei sintomi invalidanti che provavo, in tutte le visite che ho fatto la risposta è sempre stata che il mio apparato genitale era funzionante e che quindi mi dovevo solo rilassare.

Ogni volta che tornavo da Haiti e facevo i controlli la risposta era sempre la stessa: una questione di rilassamento. Da una parte mi sollevava perché dicevo “Non ho niente mi devo solo rilassare, posso continuare a lavorare, posso continuare a viaggiare, posso portare avanti i miei progetti di vita”, dall'altra iniziavo comunque a sentirmi inadeguata, disperata e anche un po' rotta, perché non riuscivo a capire che cosa non andasse in me.

La diagnosi è arrivata a gennaio del 2022, più di un anno e mezzo fa, quando finalmente mi sono rivolta a Casa Medica, un centro specializzato che si trova a Bergamo. È stato un sabato mattina molto strano quando sono uscita dallo studio all'inizio mi sentivo leggera, sollevata perché il dolore che ho provato per anni finalmente aveva un nome e anche delle possibili terapie. Dall'altra parte, per quanto i professionisti sanitari abbiano cercato di darmi tutti gli strumenti per poter affrontare e gestire il dolore anche in un contesto di emergenza, è stato comunque pesante come un macigno dover accettare che la diagnosi implicava anche un cambio importante di stile di vita.

Dopo un po’ dall’inizio delle terapie, ho cominciato a notare dei miglioramenti con la fisioterapia e l’automassaggio ma erano molto lenti e questo mi ha obbligato a cambiare completamente le mie abitudini, il modo di camminare, gli sport preferiti da fare e il modo anche di mangiare. Dopo i primi mesi di riabilitazione, ho capito che non potevo ripartire e così ho iniziato a rifiutare le prime offerte di lavoro per nuovi paesi paesi a cui ero interessata. Gradualmente un po’ alla volta ho cambiato casa, ho cambiato lavoro e sono ritornata a vivere ufficialmente a Bergamo, dove sono nata e cresciuta.

Sono in un momento della mia malattia in cui sono riuscita ad accettare il fatto che questo dolore abbia rivoluzionato le mie prospettive sul futuro ma anche sulla quotidianità. Sia nelle montagne russe di queste settimane di riacutizzazione dei sintomi, che nei momenti di benessere che mi portano a progettare e a pensare oltre, sento di essere pronta a condividere con altre persone quello che mi sta succedendo e a mettere a frutto il potere generativo di questa malattia.

Per esempio, ho deciso un anno fa di iscrivermi a un master in studi genere in Svezia a distanza proprio perché volevo capire esattamente quali erano le connessioni tra gli stereotipi di genere, la medicina e quello che stava succedendo nel mio corpo. Anche questo è stato un modo per studiare quello che mi stava succedendo.

Sono veramente grata in questo periodo con Wave di aver conosciuto altre persone che sono nella mia condizione e che questo scambio non appesantisca, anzi alleggerisca, il peso di una quotidianità molto complicata nella gestione e di un corpo che non risponde sempre ai miei desideri. Sento che con gli altri riesco a vedere nelle pieghe di questo dolore delle luci e delle possibilità che mi spingono a mettere a frutto quello che sono anche in un contesto diverso rispetto a quello a cui sono stata abituata negli ultimi anni.

Il contesto lavorativo e le decisioni che riguardano la vita professionale sono uno spazio molto complesso che dipende dal settore, dal contratto e dalle condizioni. Mi rendo conto che nel contesto italiano, il fatto che la vulvodinia non sia formalmente riconosciuta complica ancora di più le cose e il tipo di scelta. Io non ho rimpianti, nel senso che ho gradualmente e dolorosamente deciso di rimodulare quelli che erano i miei sogni sulla base di quello che il mio corpo mi stava dicendo.

Ovviamente mi manca tutto. Tutto quello che è connesso al viaggiare, al mettere al servizio la mia professionalità verso altri paesi e altri progetti. Mi manca anche lavorare in contesti di urgenza, anche se mi fa un po’ ridere dirlo perché sono contesti molto stressanti. Mi manca il fatto di dire “sto facendo la mia parte” e tutto quello che ho studiato e la professionalità che ho acquisito. Dall’altra, sto imparando a rimodulare queste prospettive che ho sul lavoro e sulla vita sul qui e ora e su quello che il corpo può permettermi di fare.

Sono sicura che queste crepe di luce che intravedo nell’ombra della malattia potranno sicuramente riaprirmi a degli spazi nuovi in cui poter riutilizzare la professionalità che avevo in un contesto diverso che può essere quello italiano, come quello europeo e non più quello del settore umanitario di urgenza.A chi si trova in difficoltà sul lavoro mi sento di dire che “noi non siamo il nostro lavoro” e da quando sono tornata e mi sono concentrata sulla malattia in realtà mi sono ricordata di essere tantissime altre cose. È stato anche bellissimo ed è bellissimo esplorare altre potenzialità e altri aspetti di me che avevo lasciato sotto traccia perché avevo investito gran parte di me nel lavoro.

Certo, avrei preferito non essere malata, ma la malattia mi sta dando comunque la possibilità di vedermi con occhi nuovi.