In occasione della festa dei lavoratori 2023 abbiamo chiesto all' Avv. Rosibetti Rubino di aiutarci a capire qualcosa in più su tutele, discriminazioni e diritti quando si soffre di Dolore Pelvico Cronico. Ecco un po' di risposte utili alle domande che ci avete scritto più spesso.

Una piccola premessa

Lə lavoratorə con una malattia cronica non costituiscono una categoria al centro di un obiettivo politico specifico, ma sono spesso inclusə o menzionatə in politiche volte all’occupazione delle persone con disabilità. Ciò vale sia per i quadri politici dell’UE sia per quelli nazionali. La direttiva quadro sulla sicurezza e la salute sul lavoro dell’UE (89/391/CEE) impone aə datorə di lavoro di effettuare valutazioni dei rischi e di attuare misure di prevenzione adeguate al fine di eliminare i rischi alla fonte o almeno ridurli al meglio possibile.

Il quadro strategico dell’UE in materia di salute e sicurezza 2014-2020 ha sottolineato l’importanza di affrontare le sfide poste dalle malattie croniche, enfatizzando l’importanza della prevenzione e del reinserimento delle persone che soffrono di tali malattie. Purtroppo però gli obiettivi concreti sono ancora molto lontani.

Sono una lavoratrice dipendente. Di quali tutele sul lavoro posso usufruire se la mia malattia non fa parte dei LEA?

Puoi usufruire delle tutele previste per qualunque malattia, primo fra tutti il diritto al periodo di comporto (ovvero il periodo in cui la tua morbilità deve essere “sopportata” dal latino cum+patior, patire insieme). La durata del periodo è stabilito dai CCNL (Contratti Collettivi Nazionali del Laroro), la cronicità della malattia non è una condizione per il riconoscimento del diritto ma sono gli stessi CCNL a prevedere diversi periodi di comporto o diritti aggiuntivi alle persone portatrici di una patologia cronica.

Attenzione! Spesso la cronicità è associata a un possibile accertamento di un certo grado di invalidità. L’invalidità (sopra una certa percentuale) ha un regime di tutele a sé, fra cui ad esempio l’intero sistema della L. 104/1992. Cronicità e invalidità sono però due cose diverse che non necessariamente coincidono.

Devo comunicare al mio datore di lavoro che ho una malattia cronica non riconosciuta dal SSN?

Non necessariamente, il datore di lavoro non può conoscere per ovvie ragioni di privacy (ma anche per evitare eventuali comportamenti discriminatori) le patologie di cui soffrono lə dipendentə e, infatti, i certificati telematici da inviare aə datorə di lavoro non riportano la diagnosi. Ogni valutazione sanitaria può essere effettuata solo dal Medico Competente che può dichiarare, previa visita, lə dipendente idoneə, inidoneə o idoneə con limitazioni alla mansione. Lə datore di lavoro dovrà attenersi al giudizio dellə Medicə Competente e, se del caso, assegnare lə lavoratorə a mansioni compatibili con il proprio stato di salute. Non sono mancati sotto questo profilo, durante la pandemia, anche giudizi che hanno prescritto al datorə di lavoro di concedere lo smart working quale soluzione organizzativa compatibile con lo stato di salute ma ovviamente non è sempre attuabile e le soluzioni organizzative in quanto tali restano di competenza del datore di lavoro.

Come posso riconoscere una discriminazione sul lavoro per motivi di salute?

In generale le discriminazioni sono di due diversi tipi:

Diretta: quella situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente, in base a un determinato fattore c.d. di rischio (discriminatorio), di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga. La discriminazione diretta è caratterizzata dall’intenzione esplicita di discriminare in ragione di un fattore c.d. di rischio. Talvolta, il motivo o movente discriminatorio può essere celato o occultato, ad esempio dietro esigenze di politica aziendale, oppure altre ragioni, presunte o effettive. In questi casi, la puntuale e accurata ricostruzione del contesto è determinante per far emergere elementi da cui si possa desumere il collegamento tra il trattamento svantaggioso e la riconducibilità (del motivo o del movente) della condotta ad un fattore c.d. di rischio.

Indiretta: può essere definita come una previsione, un criterio o una pratica apparentemente neutri (che non operano cioè una classificazione sulla base di un fattore c.d. di rischio) che può mettere le persone di una determinata razza, origine etnica, religione, disabili o che hanno una determinata età o un certo orientamento sessuale, identità di genere, nazionalità o qualsiasi altra caratteristica protetta, in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che la disposizione, il criterio o la pratica siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima, e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari al raggiungimento del fine. Nella discriminazione indiretta non è, per definizione, ravvisabile l’animus discriminandi, che invece è una componente significativa, anche se non rappresenta un criterio univoco, per valutare la sussistenza degli estremi di una discriminazione diretta.

Per fare un esempio concreto in tema di discriminazione ma che ben faccia intendere che non tutto è considerato discriminazione ma che è il caso specifico a fare la differenza in termini di valutazione del comportamento, si pensi al fatto che è possibile licenziare unə lavoratorə per inidoneità sopravvenuta alla mansione che, in parole povere, e ciò che avviene quando il giudizio del medicə competente dichiara il lavoratore – prima abile a svolgere la mansione affidata – inabile totalmente e permanentemente. Ebbene, secondo la giurisprudenza, lə lavoratorə può essere licenziato ma «sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico deə datorə di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi nei luoghi di lavoro - purché comportanti un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell'impresa e nel rispetto delle condizioni di lavoro deə colleghə dell'invalidə - ai fini della legittimità del recesso».

Insomma, è e sarà sempre il caso concreto a determinare l’effettiva sussistenza o meno di una discriminazione (n.b. attenzione all’uso e all’abuso della parola mobbing: secondo la legge neppure esiste!)

Posso accedere al lavoro da remoto per motivi di salute se la mia malattia non è ancora riconosciuta dal SSN?

No, ma anche nel caso in cui la malattia sia riconosciuta dal SSN (Sistema Sanitario Nazionale) non avresti comunque un diritto assoluto allo smart working. La malattia è di per sé tutelata dalla possibilità (ma anche dal dovere) di astenersi dal lavoro proprio per il recupero dello stato di salute. Durante la pandemia è stato ammesso un temporaneo diritto soggettivo del lavoratore cd. Fragile allo smart working. Era stato definito lavoratore fragile, chi:

  • rientra nelle categorie dell’art. 26 del Decreto “Cura Italia” (rischio in relazione a COVID-19 derivante da immunodepressione, esiti oncologici o disabilitĂ  in condizioni di gravitĂ  ex L. 104 art. 3 comma 3)
  • chi soffre di patologie che possono incidere sulla prognosi in caso di infezione, per cui vanno previste soluzioni maggiormente cautelative come da Circ. Min. Salute del  4.9.2020.

In ogni caso, sarà il Medico Competente a poter indicare quale soluzione dell’idoneità alla mansione lo svolgimento del lavoro da remoto. Si tratta però di una valutazione su un piano diverso e non in termini di “malattia” quanto di “condizione”. La malattia tout court è invece un evento tutelato proprio dall’assenza legittima dal lavoro e non già dallo svolgimento del lavoro, seppur da casa.

Posso avere dei permessi speciali per il mio stato di salute?

In linea generale no, se non usufruendo dell’indennità di malattia. Come anticipato però sono gli stessi CCNL a prevedere diritti diversi per determinate condizioni deə lavoratorə (molto comuni ad esempio sono le previsioni ad hoc per soggettə oncologicə, tossicodipendentə, immunodepressə). I permessi sono invece previsti dalla legge per ə soggettə invalidə (bisogna quindi rientrare nelle categorie di cui alla L. 104/1992).

Il fronte su cui si può intervenire efficacemente è, a mio parere, proprio quello della contrattazione collettiva (anche e soprattutto aziendale). I contratti aziendali sono dei “mini” contratti collettivi che si sottoscrivono e contrattano, appunto, a livello di singola azienda (a differenza di quelli nazionali che invece valgono per tutte le aziende del settore aderenti al sindacato firmatario). La prossimità serve anche a conoscere meglio le esigenze di quella specifica azienda e a concordare quindi soluzioni impresa/lavoratorə che siano più efficienti per entrambe le parti. Si pensi a un’azienda che vende abiti la cui popolazione aziendale è composta da sole donne.  evidente che un congedo mestruale avrebbe molto più appeal in un contesto del genere che non in un’azienda composta per lo più da uomini. Con la contrattazione si possono introdurre nuovi strumenti di tutela tramite le istanze dei lavoratori al sindacato.